In ricordo del poeta Giuseppe Jovine, a venti anni dalla morte

Il maestro Domenico Fratianni fa rivivere l'autore di Castelmauro, tra i maggiori poeti italiani contemporanei

Dipinto di Domenico Fratianni che ritrae Giuseppe Jovine

di DOMENICO FRATIANNI

Era diventata, negli anni, una sorta di celebrazione dell’amicizia; i suoi ritorni nel Molise, lasciata l’aria della Capitale, finivano sempre per trovare l’approdo nella mia casa dove, inevitabilmente, si riallacciavano discorsi mai interrotti sul Molise. Sanguigno, passionale, tumultuoso, mordace, idilliaco, ironico: Peppe Jovine era tutto questo insieme. Quando ci si rivedeva, però, si addolciva, sempre disponibile, amoroso e felice. Un sodalizio di umanità che trovava, parlando di Giose Rimanelli, il naturale rimando speculare delle sue e delle mie avventure e ricerche artistiche. “E cche ccè vò?” aveva scritto Peppe. “Arrizza le vracce e croce t’aretruve” (E che ci vuole? Alza le braccia e ti ritrovi croce). Carissimo, ti sei messo il cappello bianco in testa e, senza avvertirci ci hai lasciato per sempre, facendo il grande salto e andando a raggiungere Gilda Pansiotti, Albino Pierro, Filippo Acrocca, gli amici di sempre. E mi domando come ho fatto a capacitarmi in tutti questi anni a non vederti più nel mio studio davanti al cavalletto o sui monti della tua Castelmauro (tu che amavi Monte Mauro, la tua montagna incantata, come Cézanne, il grande pittore Francese, amava la sua mitica Saint Victoire, in Provenza). Tu che sei stato il mio inseparabile compagno di viaggio per anni; che amavi il vero e il bello e soprattutto la giustizia, che del concetto di bellezza è l’essenza.

Novello Don Chiscotte, pronto a sguainare la spada in difesa degli umili e dei disperati, con la tua straordinaria carica di umanità, mista a poesia che entrava nelle vene come forza rigeneratrice. Mi domando come ho fatto a capacitarmi di non sentire più la tua voce dall’altro capo del telefono, di non vederti più nel mio soggiorno a parlare fitto fitto di poesia, di arte e di varia umanità e a riscoprire, attraverso una tua poesia o un mio disegno, i legami intimi di un linguaggio comune avente come codice segreto la nostra terra di Molise, ovvero il sentimento mai parente del sentimentalismo e l’unghiata disperata di chi si ostinava a credere di poter cambiare il mondo con il solo potere dell’arte. Con te ho perso una presenza gioiosa, anche quando, a volte, montavano i furori e gli sdegni per viltà ricevute. Tu che mi leggevi a voce alta i tuoi scritti e mi recitavi le tue poesie, guardandomi poi con attenzione come ad aspettare le mie reazioni; tu, grande poeta (la distinzione tra la tua poesia in lingua e quella in vernacolo lascia, per me, il tempo che trova) che ti illuminavi quando l’amico pittore si accendeva di entusiasmo per l’asciuttezza della tua parola che giungeva dritta al cuore. Forse, amico carissimo, a capacitarmi della tua assenza sei stato proprio tu, quando mi dicevi che la vita e la morte sono le facce della stessa moneta. Questa accettazione è dunque frutto della tua continua presenza; una sorte di angelo custode tragico, lirico e vitalissimo. Sono trascorsi venti anni e sembra ieri.

In verità è che per me la dimensione temporale comunemente intesa, è radicalmente cambiata; ad essa è subentrata un’altra, quella che viene scandita dal cuore. E trovo anche che tutto ciò sia bello perché non è un fatto consolatorio, ma un’autentica ancora di salvezza che mi permette di ribaltare il concetto stesso di morte nel suo opposto. Voglio dire che è come se tu, amico carissimo (non è nel destino dei veri poeti rimanere sempre vivi?) continuassi il tuo dialogo sull’onda della tua voce poetica.

Ti piaceva esorcizzare la morte al pari del tuo e mio amico poeta Lucano Albino Pierro, giunto più volte alla soglia del Nobel per la sua poesia in vernacolo tursitano. Non mancavi di effettuare quelle che si potevano definire delle vere e proprie discese negli inferi, tra le ombre dei trapassati; discese che si risolvevano sempre in una riconquista ideale della vita, del paese natio, della natura. La morte era per te bivalente quanto la vita. Tutto questo era sempre presente nella tua poesia, dove urgente era la presenza della luce, anche quando il dolore e le ombre diventavano voci predominanti. Allora era la speranza a intervenire a fare da contrappeso. Ecco perché non riuscivi mai a staccarti dalle immagini più terrestri: dal suono delle campane, dai vecchi indumenti che erano dei tuoi cari, dallo scricchiolio dei mobili antichi del tuo Palazzo Ducale di Castelmauro, dal canto dei grilli e da una continua riconciliazione con la vita. Ecco cosa mi consola, il sentirti vivo, sempre. E allora sai cosa faccio? Chiamo al telefono prima Carlo e Lucia i tuoi figli amatissimi per dire loro quanto li avevi nel cuore e poi ti collego con il nostro amico comune Giose Rimanelli, che avrai già incontrato in cielo, per farvi riabbracciare di nuovo; parlerete così, ancora una volta, di arte e poesia e della terra di Molise, che tanto amavate.

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