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Quando a parlare è il silenzio

Una difesa naturale

«Immagina di essere un piccolo mammifero, per esempio un cane delle praterie, esci dalla tana e vai in cerca del pranzo: cominci ad esplorare i dintorni e all’improvviso vedi una lince rossa, tua ben nota nemica. Ti immobilizzi del tutto, senza dover soppesare la tua decisione, utilizzi il regalo che ti ha fatto l’evoluzione. Capita e basta. La percezione visiva o uditiva della lince rossa arriva direttamente alla tua amigdala e la reazione conseguente è l’immobilità», in queste poche righe, il neuroscienziato statunitense Joseph LeDoux descrive chiaramente il valore adattivo di un’emozione come la paura, essa, infatti, si attiva come risposta arcaica innescata dall’amigdala, un nucleo del cervello che attiva la difesa dell’individuo in caso di pericolo. Oltre alla paura, anche la felicità, la rabbia, il disgusto, la tristezza e la sorpresa, sono emozioni primarie, presenti già nei primi mesi di vita. Nel caso della paura, lo scopo principale è quello di allertare l’organismo affinché possa prepararsi alla difesa, all’attacco o alla fuga (Milosevic, 2015.)

 Come un congelamento

Il Sistema Nervoso adatta la propria reazione alle esigenze del momento. Lo stato di freezing si ha quando l’organismo s’immobilizza per restare il più possibile nascosto a un potenziale nemico/predatore. Uno stato emotivo e comportamentale che prevede diversi gradi d’inibizione dei movimenti, dei comportamenti e della vocalizzazione. C’è anche da dire che nel momento in cui sarà interrotto il freezing, il “motore” per la lotta o la fuga, sarà già al massimo dei giri pronto ad attaccare in caso di bisogno.

Balbuzie e mutismo selettivo

Una possibile relazione tra questo tipo di risposta e alcuni disturbi del linguaggio, è stata già indicata in letteratura sia per la balbuzie, sia per il Mutismo Selettivo. Questo stato di immobilizzazione descrive al meglio i soggetti con i segni più gravi del Mutismo selettivo quando, accanto all’assenza di comunicazione verbale, si osservano anche l’immobilità, la mancanza di espressione e la rigidità, in uno stato di “congelamento” di tutto il corpo. Adattando il modello di Clark e Wells (1995) riferito alla fobia sociale, si può ipotizzare che questa reazione di freezing prevalga rispetto a quella di fuga poiché, presentandosi nell’infanzia, il bambino ha meno possibilità di sottrarsi fisicamente ad una situazione temuta, soprattutto se si sente poco capace di affrontare l’ambiente. Metterà in atto quindi una risposta comportamentale inibitoria molto forte che gli permetterà di tenere sotto controllo la componente ansiosa, riducendo momentaneamente il disagio dovuto all’ansia nei momenti di confronto sociale.

Sentirsi diversi, inadeguati

In questo modo, il bambino si sottrarrà volontariamente dall’interazione sociale portando anche i coetanei a mettere in atto comportamenti di evitamento; ciò produce nell’immediato una sensazione di sollievo, come se fosse protetto dal suo mutismo, ma, allo stesso tempo, questa protezione confermerà le sue credenze di diversità e inadeguatezza sociale, aumentando la probabilità di sperimentare emozioni spiacevoli come tristezza, ansia e rabbia che ostacoleranno lo sviluppo di abilità sociali importanti e contribuiranno all’alimentazione di questo “circolo vizioso”. Questo stato di freezing è meno riconoscibile però quando accanto al mutismo, si osservano comportamenti che lasciano intravedere un minimo di iniziativa come l’indicare, scrivere messaggi con biglietti, picchiettare sulla spalla di qualcuno per richiamarne l’attenzione, fare brevi gorgheggi o suoni, se non addirittura la partecipazione a giochi e attività di gruppo, dando segni di benessere e divertimento, continuando tuttavia a mantenere il silenzio. Diventa ancora meno riconoscibile quando il bambino mostra una forte volontà comunicativa articolando comunque parole riconoscibili, sebbene senza suono.

Intervento psicologico e psicoterapeutico

Secondo l’approccio della Psicoterapia psicodinamica Integrata, si deve tener conto dell’atteggiamento empatico del terapeuta, volto a creare il clima adatto affinché si instauri una relazione di sicurezza che permetta al paziente (in questo caso in età evolutiva) di aprirsi ad espressioni anche non verbali, ma di gioco e di rappresentazione, senza la pressione che può essere derivata dagli altri contesti di vita del bambino. Attraverso l’interazione terapeutica, si creeranno dei significati che produrranno il linguaggio come azione corporea, ossia vocalizzo, suono, segno, cioè manifestazione protomentale di emozioni e affetti (intesa come l’insieme dei primi processi psichici che si sviluppano nel cervello umano). L’intenzionalità del gesto diventa intenzionalità del senso, in seguito anche verbale (ma non solo), al fine di raggiungere di esercitare il pensiero anche attraverso la parola (Lago, 2016). Successivamente attraverso le rappresentazioni si può giungere ad un livello di riflessione (adattato all’età) che giunge al superamento del blocco verbale.

Per far questo è necessario coinvolgere il sistema familiare, ove opportuno, per lavorare sugli aspetti disfunzionali e per comprendere la storia, eventualmente conoscendo e trattando elementi traumatici vissuti e integrando i vari interventi. Lo psicoterapeuta PPI come case manager favorisce la comunicazione tra gli attori coinvolti nell’aiuto al bambino, dando senso alla relazione con la realtà sentita da lui.

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Autrici: Valentina Battisti, Silvia Battisti, Martina Marcelletti

Istituto Romano di Psicoterapia Psicodinamica Integrata

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