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Cronache marziane / Le ferie ferragostane del lavoratore costretto a viaggiare sul pullman anche per raggiungere il mare

La costa termolese
La costa termolese

CRISTINA SALVATORE

“Non è la destinazione, ma il viaggio che conta”. La lunga corsa verso il mare: storie di ordinario pendolarismo.

Tutti i tuoi amici sono al mare da sabato scorso e tu invece hai dovuto lavorare anche durante il Ferragosto? Bene, è arrivato il momento di staccare la spina e raggiungerli prima che si crei un divario insormontabile tra la loro accesa abbronzatura e la tua abbagliante anemia. Sei così stressato che non hai neanche voglia di guidare e decidi di farti beatamente trasportare dall’autista del pullman per arrivare fresco e riposato sulla costa molisana, tanto ci sono gli amici modaioli che ti verranno a prendere. Quelli che lavorano in discoteca, che fanno i ‘PR’ o i ‘fashion blogger’ e guadagnano più di te che hai un master in economia e due lauree in lettere. Loro hanno quattro macchine a testa. Tu una sola. Che in realtà non è proprio tua perché è intestata a tua madre, ma lei non la guida più da quella volta in cui rimase scioccata dal cattivo odore di bruciato dopo aver fatto la salita del Castello Monforte con il freno a mano tirato. Quindi è praticamente passata di diritto a te, gratis.

Però tua madre, ai tempi, ne aveva scelto il colore: rosa e con le ciglia finte sui fanali, regalo di tua zia che “ci resta male se le togli”.

Ok, arrivi al terminal e fai la fila per il biglietto. Sali, ti guardi intorno e, se sei abbastanza paranoico, scegli il posto dalla parte dell’autista (si sa che nel caso d’incidente il conducente è portato a proteggere per istinto il lato che occupa al volante). Ok, ancora non sale nessuno. Perfetto.  Regoli l’aria condizionata a tuo piacimento e tiri leggermente la tenda del finestrino. All’improvviso, due minuti prima dell’inizio della corsa, cominciano a passarti accanto, uno dopo l’altro, chiassosi, sudati, concitati, tanti, ma tanti di quei passeggeri che scatta immediatamente l’overbooking. Avevi, giusto un secondo prima, tirato indietro lo schienale del sedile e ora, educatamente, lo riporti nella sua comoda posizione di partenza a ‘settanta gradi’, perché sai cosa significa l’esser civili. Quello davanti a te, invece, avendo vissuto tutta la vita come un eremita sulla cima della sua intelligenza incompresa e solitaria, ha pensato bene di tirare giù lo schienale a 180 gradi, che, andando a incastrarsi coi tuoi 70, crea il tipico effetto “freccia”.

Come spiegare cosa sia l’effetto freccia? Basta un disegnino per rendere  bene l’idea del passeggero dietro, eretto ma sbilanciato verso l’orizzonte, e quello steso avanti che gli entra dritto nello stomaco, “effetto freccia” :  <–

E a nulla valgono i tentativi di tirare ginocchiate casuali sullo schienale per fargli intendere che deve darsi una raddrizzatina, perché lui fa lo stesso buttando i suoi piedi ovunque: la normalità. Chiamarlo è impossibile. Il volume della musica che ascolta con le sue cuffiette fa praticamente da radio a tutto l’equipaggio.

Intanto la signora che ti siede accanto, presa da vampate di calore, alza al massimo l’aria condizionata. Scatta la lotta infinita (che durerà fino a quando uno di voi due non arriverà a destinazione) tra te che non hai portato il cappotto a bordo e lei che suda come se stesse trascinando a piedi, con una corda, il mezzo e tutti i passeggeri sopra.

Sono passati appena venti minuti dalla partenza e sopraggiunge l’angoscia: pensi che dovrai sopportare ancora per molto pure le frenate improvvise, a scatto e continue dell’autista. Quelle che ti mettono addosso un fastidioso senso di nausea che annienta ogni attività benefica ‘ammazza tempo’ come leggere un libro, ascoltare musica o dormire. La croce è che devi stare male fino alla fine e devi esserne consapevole.  Devi soffrire sapendo di soffrire, punto.

Dopo un’ora e mezza d’agonia, trascorsa ad ascoltare tutta la telefonata ad alta voce del passeggero seduto dietro di te  (il cui dialogo con l’interlocutore era un concentrato di saggezza  riassumibile con la frase ad effetto “lei fa finta di ignorarmi ma è proprio quello che mi fa capire che gli piaccio da pazzi”), finalmente sei arrivato! Vai a recuperare le borse dal bagagliaio e, ovviamente, le tue sono le ultime in fondo, dal lato opposto. Entri dentro allungandoti, strisciando sullo sporco e trasformando il tuo abito chiaro in una tuta mimetica, però ce l’hai fatta.  Il pullman va via, continua la sua corsa e tu aspetti sulla panchina, alle nove del mattino, che qualcuno dei tuoi amici motorizzati ti passi a prendere. E nulla, sai che ieri hanno fatto le cinque e che stanno dormendo senza vergogna.

Ci sei solo tu e la signora che ha portato il cane a fare i bisogni. Decidi di andare al mare per aspettare che la comitiva si desti e intanto fare un bel bagno… e niente: appena arrivi sulla spiaggia capisci perché alla stazione c’eri solo tu e la signora col cane. Sono tutti lì. Tutti. Neanche uno spazio minuscolo per allungare la schiena. Stavi più largo sul sedile del pullman. E mentre ti fai coraggio e t’incammini verso la riva per cercare di prendere aria, devi saltare dinosauri scolpiti sulla sabbia (che senza, il posto sarebbe stato tuo) e tutto il mondo spiaggiato, che ti guarda mentre gli passi accanto, con uno sguardo vagamente simile a quello di Jack Nicholson in ‘Shining. E lo sai bene a cosa stanno pensando, perché è capitato anche te di pensarlo, mille volte: “ma con tutto lo spazio che c’è, mica si verrà a mettere proprio qui?”.

Redazione

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