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La riflessione / Il calcio a Campobasso, il sogno di tornare nelle categorie che contano, i tanti presidenti osannati e rinnegati. Un copione che si ripete ciclicamente da un quarto di secolo

I tifosi in Curva Nord durante la partita tra il Campobasso e la Fermana
I tifosi in Curva Nord durante la partita tra il Campobasso e la Fermana

GIUSEPPE FORMATO

Il calcio, così come la politica, a ogni latitudine territoriale e di categoria, è bello perché gli appassionati dell’una e dell’altra materia seguono le vicende, maturano una propria opinione e commentano al bar dello sport o nei salotti politici, luoghi non più fisici, ma virtuali: i social network, raggiungibili con un semplice ‘touch’ sullo schermo di uno smartphone o un tablet.

Lasciando da parte la politica, oggi ci soffermiamo sulle vicende del calcio cittadino. Quel pallone rossoblù che, dal 1990 ad oggi, si è gonfiato con la fondazione di ben quattro società e sgonfiato con il fallimento di altrettanti club.

L’estate dei Mondiali nel Belpaese vide, contemporaneamente al successo della Germania e al terzo posto degli Azzurri di Azeglio Vicini, la fine della storia dell’Us Campobasso 1919, il club che davvero ha scritto la storia del calcio rossoblù con cinque campionati di serie B e le partite giocate contro la Juventus, il Milan, la Fiorentina, la Lazio e tutte le altre grandi squadre del calcio italiano. Molinari chiuse la sua avventura quasi decennale e il calcio campobassano ripartì dalla Prima categoria con i fratelli Scasserra, Carlo al timone e l’ex capitano Gino nei panni di direttore sportivo. Nel 1995 ci fu la parentesi (triste e infelice) dell’avvocato di Saddam Hussein e Slobodan Milosevic, Johnny Di Stefano.

La coppia Berardo-Tavaniello (successivamente rimase solo l’ex consigliere regionale) prese in mano le redini del calcio cittadino, acquistando il titolo dello Smat Sepino-Morcone e dall’Eccellenza si arrivò in serie C2, prima del fallimento del 2002 con il traghettatore Mario Pietracupa, chiamato dalla famiglia Patriciello a salvare il salvabile.

Nel 2002 Iacampo fece le prove generali con la Polesiana in Eccellenza, guidata dallo zar Pietro Maiellaro. La squadra di contrada Polese provò anche a utilizzare le divise rossoblù, ma non fu mai amore con la piazza. L’anno dopo, siamo nel 2003, Iacampo, insieme con Rizzi e Palladino, ripartì ancora dall’Eccellenza nell’anno dei tre team del capoluogo nel massimo torneo regionale: il Nuovo Campobasso, la Società Sportiva Campobasso del fratello meno famoso dei Mazzola e l’Us Campobasso 1919 di Lozzi, il quale dieci anni dopo risulterà fondamentale per l’ennesima ripartenza.

Rizzi, Iacampo e Palladino, dopo aver riportato il club in serie D, furono costretti a lasciare la società all’imprenditore irpino, Ferruccio Capone, quest’ultimo amato per qualche tempo, odiato dalla tifoseria negli ultimi anni, nonostante anche lui, come Berardo, riuscì a portare il club nella ex serie C2, nell’anno (2010) dei venti ripescaggi dalla D alla Seconda divisione della Lega Pro.

Il fallimento del Nuovo Campobasso è datato 30 giugno 2013, giorno in cui l’allora patron Ferruccio Capone non iscrisse il club al torneo di Lega Pro. Appena dieci giorni dopo l’immediata rinascita, ancora dall’Eccellenza, col titolo ceduto da Umberto Lozzi, proprietario dell’Us Campobasso. Il resto è storia recente col ‘triplete’: campionato, Coppa Italia regionale e alloro tricolore nazionale. A seguire un torneo di serie D concluso al quarto posto, il divorzio dal mister dei record, Francesco Farina, al giro di boa dello scorso campionato con appena due sconfitte in un anno e mezzo di guida dei lupi. E ancora il rapporto non idilliaco con Vullo, la sua sostituzione (con tanti proclami) con l’attuale allenatore Cappellacci – anche se prima dell’ex Cosenza si era pensato a riportare in rossoblù lo Special Wolf Vincenzo Cosco – una campagna acquisti sontuosa e un inizio in salita con quattro sconfitte nelle prime otto giornate di campionato.

Questa è la storia del Campobasso degli ultimi 25 anni, un quarto di secolo composto più da dolori che da gioie.

Un comune denominatore di questo quarto di secolo, però, esiste. L’esigenza di una piazza che vede piccoli centri arrivare fino in serie A, mentre i lupi sono costretti a navigare nelle categorie dilettantistiche e, quando si riesce a scollinare nel professionismo, l’esperienza dura sempre troppo poco.

Le polemiche e le critiche sono gli ingredienti che hanno sempre contraddistinto ogni piazza calcistica e Campobasso non è stata mai da meno. Soprattutto per la voglia di emergere, sia come squadra calcistica che come città, provata dalla congiuntura economica, forse, più di ogni altra.

Le polemiche, nel 2015, corrono via social e nelle ultime settimane i tifosi, gli appassionati, coloro che seguono le vicende calcistiche, dir si voglia, e ovviamente anche i giornalisti, non sono venuti meno alla ridda di critiche piovute addosso alla squadra, al tecnico Cappellacci e al ds Minadeo, fino a giugno capitano e idolo della tifoseria rossoblù.

A rispondere alle critiche, con post e immagini, è stato anche lo stesso presidente Giulio Perrucci, sempre attraverso facebook, che ovviamente da buon pater familias ha difeso a spada tratta l’operato della dirigenza e dello staff tecnico, che comunque gode di una fiducia a tempo.

Chi vuole far calcio deve mettere in preventivo che la riconoscenza non è di questo mondo: prima dell’attuale proprietà, che ancora gode la fiducia della piazza, a farne le spese sono stati tutti coloro che si sono succeduti alla guida del Campobasso Calcio.

Tonino Molinari ad esempio, fece divertire una intera regione. Insieme con il presidentissimo della serie B in tanti condivisero cene, feste e vacanze, ma al fallimento del club calcistico e delle aziende di famiglia, tutti sparirono in un batter di ciglia. E al suo funerale, il 2 maggio 2015, non si registrò quella folla che, forse, anche lo stesso Molinari si augurava fosse presente.

Non fu da meno la famiglia Scasserra: tempo fa, Gino confidò al collega Nicola De Santis che la proprietà nel 1995 fu costretta a cedere alle pressioni di una tifoseria stanca dei titolari del pastificio Colavita.

Berardo, osannato per quattro anni, dopo il lustro iniziò a essere inviso alla piazza. Il presidente, che riuscì a portare più volte oltre quindicimila tifosi allo stadio, al primo tentativo di diventare consigliere regionale fu bocciato dall’elettorato. Arrivò a Palazzo Moffa solo dopo qualche anno aver lasciato (nella solitudine) il mondo ‘pallonaro’.

Poi fu la volta della triade Rizzi-Iacampo-Palladino: anche loro a gennaio 2007, quattro anni dopo l’inizio della loro esperienza, furono costretti a cedere alle pressioni della piazza e, in quel caso, pure della squadra, allenata all’epoca da Paolucci, che non stava percependo quanto necessario per vivere.

Ferruccio Capone, accolto come un profeta in un freddo pomeriggio del gennaio 2007 all’Hotel San Giorgio, dal 2011, durante l’anno del ritorno nel professionismo, iniziò a stare antipatico a tutto l’ambiente. Il sindaco di Montella, appena arrivato circondato da una pletora di persone, rimase pressoché solo. E nel giugno 2013 portò la società, nata dieci anni prima, al fallimento.

La riconoscenza non è del mondo del calcio e chi ci ha investito soldi, tempo e fatica, a Campobasso, così come in ogni altra parte d’Italia, è andato via col rammarico di essere stato accolto come il salvatore della Patria e nella solitudine più generale.

Questa volta non sarà, sicuramente, così. Ma meglio mettere in preventivo che la storia potrebbe ripetersi. Inutile, quindi, rimuginare sulle critiche, anche le più severe, perché questo è un momento negativo. E i giornalisti fanno il proprio lavoro, i tifosi hanno una propria testa per pensare e per far diventare il fenomeno calcio un modo per discutere, immaginarsi presidenti, allenatori, opinionisti. Non c’è nulla di male: i giornalisti fanno il proprio mestiere, per gli appassionati il calcio è anche uno sfogo per distrarsi dalla routine quotidiana.

Per uscire dal disfattismo generale e per passare alla storia ci vuole tanto o poco, a seconda dei punti di vista: occorre vincere, prendere la vetta e arrivare in Lega Pro. E, forse, nemmeno basterà. Le vittorie danno la gloria momentanea, quella eterna non è di questo mondo.

Divertiamoci, dunque, dietro alla palla che rotola senza troppi piagnistei. Del resto, il calcio è uno sport. Occorre accettare le vittorie e, soprattutto, le sconfitte. Tutta la città spera nel calcio professionistico, diversamente dovremo farci una ragione che, forse, la serie D è la categoria che meglio rispecchia l’economia locale.

Redazione

CBlive

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