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Lupi, cronaca di una trasferta: a Teramo bastano una cinquantina di tifosi del Campobasso per creare l’atmosfera casalinga. ‘Ogni maledetta domenica’ è sempre la stessa storia, ma i tifosi ora pretendono riscatto e rispetto

I tifosi del Campobasso presenti al 'Bonolis' di Teramo
I tifosi del Campobasso presenti al ‘Bonolis’ di Teramo

ANDREA VERTOLO

“Ora noi o risorgiamo come squadra o cederemo un centimetro alla volta, uno schema dopo l’altro, fino alla disfatta. Siamo all’inferno signori miei, possiamo rimanerci, oppure lottando verso la luce, possiamo scalare le pareti dell’inferno un centimetro alla volta”. Negli spogliatoi dello stadio ‘Bonolis’ di Teramo il Campobasso avrebbe bisogno del celebre discorso, passato alla storia del cinema e dello sport, interpretato magnificamente da Al Pacino, nelle vesti di mister, nel film ‘Ogni maledetta domenica’.

Di sicuro questo è quello che speravano gli instancabili ultras rossoblù, giunti in terra abruzzese per assistere ad un riscatto della propria squadra e tornati a casa, invece, con il fegato più avvelenato di prima.

Come nell’ultima trasferta a Jesi, anche contro il San Nicolò a portare colore e sostegno, sono le prime linee della Curva Nord e come nelle Marche, anche questa domenica, nella provincia teramana, si ascolteranno solo i cori dei supporter rossoblù, in uno stadio inesorabilmente vuoto in tutti i suoi settori.

Il ‘Bonolis’, infatti, si riempie quando in campo gioca il diavolo biancorosso mentre, per la piccola frazione alle porte della città, l’interesse è solo quello dei dirigenti e dei parenti dei giocatori. Così per 90 minuti, anche in questa domenica, il Campobasso ha giocato in casa.

La partita comincia. Sui gradoni si alzano i primi cori, ordinati, massicci, che rimbombano per tutto lo stadio ma non nella testa dei giocatori in campo, perché in effetti la palla comincia a girare, ma la partita sembra non cominciare mai. Molti i cori a rispondere, che suonano come boati di grinta e rabbia allo stesso tempo. Si vuole la vittoria, anche per non passare un’altra settimana immersi fino al collo nei vari processi senza sconti.

Una vittoria per continuare ad essere aggrappati ad un’idea, ad un sogno, che in fondo tutti in città crediamo di meritare. Verrebbe da chiedersi, intanto che i minuti scorrono senza lasciare traccia, se di polvere, nella loro carriera, ne hanno respirata i giocatori rossoblù, se di fango si sono mai sporcati le ginocchia, perché mentre in curva le voci diventano sempre più alte da sembrarne  cento, in campo ci sono undici giocatori che girano a vuoto, tanto da risultare irritanti. E così, un cross in mezzo dalla fascia, diventa un’altra cornice ideale per il destro al volo di Margarita, con il pallone che, elegantemente,  gonfia la rete proprio sotto gli occhi della Nord, portando il San Nicolò in vantaggio. La delusione è visibile sul volto di tutti i presenti.

In questo tipo di trasferte, figlie del disfattismo generale, il tifo è sempre garantito da chi ha la pelle dura, da chi ne ha viste tante, da chi è abituato a cantare anche dopo un cazzotto allo stomaco. Ma ciò che infastidisce maggiorante i ragazzi della Nord, è il senso di impotenza verso i propri giocatori. In fondo si macinano chilometri su chilometri, proprio per essere incisivi sulla gara, per alimentare la velocità nelle gambe, per far credere nel pressing al proprio giocatore, perché ci si crede davvero che un “Non mollare mai” possa spronare gli animi di chi porta addosso i colori della propria città, e quando tutto questo non succede, alla sconfitta, si unisce la rabbia.

Senza emozioni alcune, dopo 90 minuti di incitamento a denti stretti e delusione in viso, gli ultras assistono all’ennesima partita persa, senza aver mai trattenuto il fiato per un ipotetico pareggio.

La partita si conclude con i fischi rivolti verso la squadra che, con imbarazzo, non riesce neanche ad avvicinarsi più di tanto verso i propri tifosi. Sui gradoni c’è chi si porta a ridosso del campo per mandare, con estrema sincerità, i giocatori a quel paese. Intanto c’è chi discute su come tirare le orecchie ai giocatori e al proprio mister, tanto che all’uscita dagli spogliatoi Cappellacci si sentirà dire, forte e chiaro, di lasciare cortesemente quella panchina.

Le pareti dell’inferno, adesso, ci sono tutte. Allora bisognerebbe alzare davvero la voce in quello spogliatoio, perché, come direbbe Al Pacino alla sua squadra di football: “I centimetri che ci servono sono dappertutto, sono ad ogni minuto ad ogni secondo. La nostra vita è tutta lì, in quei dieci centimetri davanti alla faccia”. Chi sa se Cappellacci sia un amante del cinema, magari questa pellicola gli darebbe una mano. Intanto ci sarà sempre gente con una sciarpa al collo, che a quelle parole ci crede fortemente, ogni maledetta domenica.

Redazione

CBlive

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