Cultura

A Milano il 12° Congresso Nazionale di Immunopatologia Cutanea. L’ANPPI protagonista con un incontro medico-pazienti

All’Università degli Studi di Milano il 12° Congresso Nazionale di Immunopatologia Cutanea, organizzato dalla Sidemast e dal responsabile scientifico Angelo Valerio Marzano.

L’evento ha raccolto esperti che si occupano di dermatosi immunomediate a vari livelli. Nello specifico la prima giornata è stata dedicata alle malattie bollose autoimmuni, mentre la seconda alla Dermatosi Eosinofile.

La sessione della prima giornata, dedicata alle malattie bollose, è stata incentrata sul rapporto tra medici e pazienti, dopo interventi illustri sulla stagionalità delle malattie bollose, sulle novità diagnostiche, sulla terapia UVB, sulle nuove terapie farmacologiche, sui modelli di infezione cutanea, sul pemfigoide bolloso indotto da farmaci e sul pemfigoide delle mucose.

Uno spazio interessante, in collaborazione con l’Associazione Nazionale Pemfigo/Pemfigoide Italy, è stato quello relativo al rapporto con il paziente, all’importanza degli elementi psicologici e sul progetto ANPPI Networkcare.

Questi aspetti il più delle volte trascurati nella visione generale di alcune malattie, hanno rappresentato un momento di riflessione per i presenti spesso volti a considerare solo l’elemento biologico. A tal proposito una presenza gradita e utile è stata quella del Consiglio direttivo dell’associazione Anppi e dei pazienti, oltre alla nutrita presenza dei medici che lavorano a stretto contatto con questi pazienti.

L’ANPPI si occupa di migliorare la qualità di vita delle persone con malattie bollose autoimmuni. Ad aprire la sezione, il Presidente dell’Anppi, Giuseppe Formato,  con una relazione introduttiva sugli scopi dell’associazione e l’importanza della collaborazione tra l’associazione e gli operatori sanitari. Inoltre le testimonianze di pazienti sono stati momenti centrali in quanto hanno spiegato il proprio punto di vista nel vissuto di malattia. Interviene, successivamente,

Biagio Didona dell’ambulatorio delle malattie rare Idi-Irccs, Roma, con la sua relazione dal titolo “Il rapporto medico-paziente: una formula vincente”, esprimendo la centralità dell’alleanza terapeutica e della comunicazione efficace tra le due persone e, a seguire, Damiano Abeni, Direttore dell’Unità di epidemiologia, Registri, Trial Clinici e Statistica del Idi-Irccs, espone la sua interessante relazione su “Le criticità della raccolta dati nelle Malattie Bollose Autoimmuni”, presentando il protocollo di ricerca sullo stato di salute psicologica nelle persone affette da malattie bollose autoimmuni e la valutazione preliminare di un intervento di sostegno di gruppo. Protocollo redatto da un’equipe multidisciplinare, coordinata dalla dottoressa Silvia Battisti.

A collegare il tema della sessione, l’intervento dal titolo “Il patient engagement nei processi di cura” tenuto da Carola Pulvirenti, dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive L. Spallanzani, Roma e vicepresidente Anppi.

Il Patient Engagement è una metodica che prevede il contributo dei pazienti in tutte le fasi del processo di cura: nella stesura dei protocolli di ricerca, nell’organizzazione dei servizi sanitari, e in molti altri ambiti come i tavoli di lavoro istituzionali. Le esperienze internazionali ci portano a ritenere che i pazienti esperti e le Associazioni di Pazienti rappresentano una risorsa da integrare nel sistema sanitario. L’EMA (European Medicines Agency) garantisce il coinvolgimento dei pazienti nei propri organi di gestione e L’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha recentemente aperto un tavolo permanente per i pazienti.

La prospettiva del Patient Engagement (PE) è quella di una salute pubblica inclusiva, che fonda le sue radici sul dialogo fra i diversi stakeholder. Per la buona riuscita di un progetto d’impresa è necessario il coinvolgimento di tutte le risorse, allo stesso modo per il successo del processo di cura è necessario il coinvolgimento di tutte le risorse ed il paziente è destinatario ma anche risorsa da coinvolgere e valorizzare. Per capire in che modo mettere in atto il PE, possiamo identificare quattro tipologie di pazienti: i Pazienti Esperti, i Rappresentanti dei pazienti, i Caregivers, i singoli pazienti.

“I pazienti Esperti”, sono l’ideale, oltre all’esperienza specifica della malattia, hanno le conoscenze tecniche in ricerca e sviluppo e / o affari regolatori attraverso la formazione. Andrebbero coinvolti ad esempio nei progetti di ricerca fin dalle prime fasi e nei comitati etici, nei processi di valutazione delle tecnologie sanitarie (HTA). L’accademia Europea dei Pazienti sull’Innovazione Terapeutica (EUPATI) ed il Centro PATIENT ADVOCACY LAB dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università cattolica del Sacro cuore, si stanno occupando di formare i pazienti per renderli Pazienti Esperti. Il paziente Esperto è un paziente preparato e consapevole che supporta il professionista sanitario con la sua esperienza diretta di malattia, veicola le necessità degli altri ed aiuta ad arginare il fenomeno della disinformazione in salute. I “rappresentanti delle organizzazioni di pazienti” e i “difensori dei pazienti” sono persone incaricate di esprimere le opinioni collettive di un gruppo di pazienti su una specifica malattia o gruppo di malattie ed hanno l’esperienza nel supportare una popolazione di pazienti. E’ importante coinvolgerli nell’organizzazione dell’assistenza, ad esempio attraverso le consulte dei pazienti e nella stesura dei PDTA.

I caregivers hanno un’esperienza indiretta della malattia ed un’esperienza diretta delle conseguenze della malattia. I caregivers familiari giocano un ruolo cruciale nel processo di engagement, per questo dovrebbero essere coinvolti soprattutto nei tavoli di lavoro istituzionali. I singoli pazienti possono contribuire con la loro esperienza soggettiva della malattia e, dopo essere stati formati dallo specifico ospedale, possono venire coinvolti come volontari per l’accoglienza degli altri pazienti. Un paziente esperto ha una sua area di expertise e lavora in due modalità principali: offrire supporto ai pazienti per l’aderenza alle cure e garantire ai pazienti informazioni affidabili per poter affrontare la vita quotidiana con la loro malattia. IL Paziente Esperto può inoltre supportare l’attività di ricerca clinica, ad esempio nel reclutamento dei pazienti, nella stesura e spiegazione del consenso informato. I pazienti esperti possono anche essere coinvolti nella determinazione dei criteri di raccolta dati, nell’identificazione delle priorità all’interno di una certa linea di ricerca, della migliore valutazione dell’applicabilità di un servizio all’interno della vita quotidiana dei malati.  La sessione continua con Silvia e Valentina Battisti Psicologhe e Psicoterapeute Irppi/Adirppi che, in virtù dell’esperienza e delle conoscenze specifiche maturate in un anno di collaborazione con l’ANPPI, hanno presentato la relazione: “L’empowerment dei pazienti con Pemfigo e Pemfigoide”, ad integrazione degli aspetti biologici e psicologici, i primi di cui si è discusso molto, ma che non è possibile trattare senza un approccio di tipo integrato che tiene conto dell’unicità del paziente, del racconto della sua “storia”.

Ogni uomo è spinto a formare un progetto di vita, un bisogno irrinunciabile di realizzare se sessi. Proiettarsi nel futuro, raggiungere mete e pianificare i propri obiettivi: studio, lavoro, relazione. Il passaggio da uno stato di salute a quello di malattia pone un ostacolo a tutto questo. Il senso di inattaccabilità viene messo a dura prova in situazioni difficili. L’ostacolo rappresenta una minaccia che funge da fattore traumatico che lascia il posto a sensazioni di sconforto e abbattimento. Tutto si ferma e la spensieratezza lascia lo spazio alla paura. Paura di soffrire, paura di essere abbandonato, vergogna, paura della morte. L’impatto emozionale come un fulmine a ciel sereno è vissuto come un’aggressione o un tradimento. Il senso di paura e di perdita (di quello che si era prima) può essere associato sul piano teorico e clinico alla elaborazione del lutto e alla perdita descritti negli studi di John Bowlby sull’attaccamento. Reazione di perdita e dipendenza affettiva ben conosciute: stordimento, disperazione, ricerca e struggimento, riorganizzazione. Per il clinico è importante capire quanto la persona comprende realmente la situazione che sta vivendo. Nei casi in cui sono presenti sofferenze profonde rivolgersi allo Psicoterapeuta o allo Psichiatra deve essere possibile per non peggiorare la situazione vissuta. Comprendere che il curante viene visto come figura risanatrice e vengono proiettate su di lui immagini ed esperienze di attaccamento. Il curante dovrà essere provvisto delle 4 abilità: accoglienza, ascolto, empatia, comunicazione, senza trascurare i bisogni di protezione e di accudimento presenti nella persona e quindi porsi con un “ Io sono qui, non si preoccupi, ora mi occuperò di lei” ha un’efficacia terapeutica ineguagliabile. A questo si collega, di contro, la possibilità riprendere in mano la gestione della propria malattia attraverso il concetto do empowerment.  In un interessante e recente articolo pubblicato su ScienceDirect (J.J.Domínguez et all. 2018)  si affronta il termine empowerment in ambito dermatologico, riferendosi a qualsiasi processo che faciliti i cambiamenti comportamentali e incoraggi la responsabilità e le scelte consapevoli. Il concetto è stato applicato principalmente per aiutare i pazienti con condizioni dermatologiche croniche a raggiungere obiettivi terapeutici nel modo migliore, facilitando il ruolo centrale e attivo del paziente nelle decisioni. Il termine empowerment deriva dal verbo inglese to empower che significa “dare (a qualcuno) l’autorità o il potere di fare qualcosa” o “rendere un individuo o un gruppo più forte o più potente”. Non parliamo di potere su (power over), ma di potere con (power with). A livello psicologico, l’empowerment può essere inteso sia come prodotto che come processo, o meglio come un processo psicosociale. E’ una variabile continua e una stessa persona può essere empowered in un determinato momento della sua vita ed esserlo meno in un altro momento. Va oltre i costrutti con i quali normalmente viene paragonato e confuso, quali quelli di autostima, autoefficacia, locus of control, anche se il sentimento di autoefficacia è una parte fondamentale del sentirsi empowered. I soggetti disempowered e helpless si sentono psicologicamente impotenti e dipendenti da un locus of control esterno, presentano atteggiamenti di passività, pessimismo e rassegnazione. Attraversare un processo di empowerment significa, per contro, sia riacquistare un locus of control interno e un grado di autodeterminazione e indipendenza, cioè un sentimento di fiducia in se stessi e negli altri, sia acquisire un certo grado di autoefficacia. L’empowerment individuale riguarda soprattutto i concetti di controllo e di consapevolezza critica e avvia cambiamenti a tre livelli, cioè secondo tre stili interpretativi e costruttivi della realtà; 1) il processo di attribuzione, 2) di valutazione, 3) di prefigurazione del futuro. Il primo fa riferimento al modo in cui tentiamo di spiegare i nostri successi o insuccessi attribuendone le cause a fattori interni o esterni. Il processo di valutazione riguarda invece le nostre credenze rispetto agli standard con i quali valutiamo le nostre prestazioni che, se troppo alti o irrealistici, portano a circoli viziosi di insuccessi percepiti e conseguente frustrazione. Il processo di prefigurazione, infine, rappresenta il modo in cui immaginiamo, anticipiamo, visualizziamo il nostro futuro. In ambito sanitario, l’empowerment favorisce la prevenzione, la partecipazione ai programmi di screening, l’accesso alle cure quando servono e la loro buona gestione, come la preparazione a esami, interventi e procedure. Per dire che il lavoro di empowerment è riuscito, occorre che il paziente, oltre ad avere una certa sicurezza e padronanza, abbia una buona alfabetizzazione sanitaria e che possegga una serie di abilità essenziali per affrontare efficacemente i problemi e le decisioni della salute e delle cure. P. Schulz e K. Nakamoto, in un articolo del 2013 sul concetto di patient education, insistono sull’importanza di distinguere tra padronanza, mastery, e alfabetizzazione sanitaria, health literacy, sottolineando che occorrono entrambe. Ad esempio il rifiuto da parte dei genitori di vaccinare i bambini a seguito di notizie infondate sul rischio di autismo dovuto al vaccino è un esempio di alta padronanza e bassa alfabetizzazione, che peggiora la sanità esponendo i piccoli a rischi di infezioni. Al contrario studi sul supporto online ai pazienti affetti da fibromialgia hanno mostrato che, pur essendo ben preparati, questi tendono a sentirsi insicuri, col che il supporto online non funziona. Evidentemente occorrono al tempo stesso alti livelli di padronanza e di alfabetizzazione. Nella padronanza di solito si distinguono una componente psicologica e una sociale, seppure tra loro in interazione. Una persona può impegnarsi per affrontare al meglio i problemi della propria salute e sentirsi all’altezza, ma  trovare intorno a sé un ambiente che ne limita l’autonomia. Ad esempio, gli operatori sanitari con cui ha a che fare possono scoraggiare i suoi sforzi di partecipare alle cure o pretendere, più o meno esplicitamente, che si comporti da utente passivo. La padronanza psicologica è legata soprattutto alle abilità, grazie alle quali  riusciamo a raccogliere le informazioni necessarie, a cimentarci con l’incertezza, a trovare l’approccio giusto per addentrarci nel terreno della scienza, a essere sufficientemente razionali ed equilibrati e a rapportarci agli altri in modo adeguato. Fondamentale è la capacità di gestire la paura. Se il desiderio di toglierci la paura prevale su quello di analizzare e risolvere il problema di salute che abbiamo di fronte, tendiamo ad arrenderci, a delegare, a passare la mano e la padronanza psicologica viene meno. E’ il caso di quando avvertiamo dei sintomi o vengono messe al corrente di risultati patologici di esami clinici o di una diagnosi di malattia o del rischio di una malattia (ad esempio, di cancro per il fumo), le persone si comportano in modo diverso. Nonostante le differenze, ci sono reazioni cognitive ed emotive abbastanza ricorrenti. Alle reazioni alla malattia si applica bene una teoria elaborata originariamente da H.Leventhal negli anni Settanta: quando percepisce il pericolo della malattia, l’individuo ha due reazioni: da un lato, attraverso la risposta cognitiva, cerca di inquadrare il problema razionalmente e anche se non è medico, con le conoscenze che ha e che reperisce, cerca di dare risposta a tipiche domande cliniche, badando però soprattutto alle ricadute esistenziali dell’eventuale malattia. Contemporaneamente avanza la risposta emotiva: prende corpo la paura, vengono in mente pensieri preoccupanti (ad esempio: se sono cardiopatico, dovrò cambiare vita) e si cerca di controllarli in maniera ora più illusoria (il dolore è passato: non sarà niente), ora più realistica (sentiamo prima i medici). L’individuo può alla fine arrivare a seguire una strategia di risoluzione, per cui affronta il problema e fa tutto ciò che razionalmente va fatto data la situazione, o di evitamento, tesa più che altro a fuggire dal problema. Ovviamente l’empowerment mira a fare in modo che le persone vadano verso la risoluzione.  Oggi sappiamo che anche con una paura alta può prevalere la risposta cognitiva e si può avere un comportamento di risoluzione, anziché di evitamento. Addirittura l’operatore sanitario che sa presentare adeguatamente la gravità dei problemi può aiutare il paziente ad andare verso la risoluzione più di quello che la sminuisce. Capire fa bene alla salute, letteralmente. Comprendere quello che ci dice il medico o un altro operatore sanitario, leggere senza difficoltà di interpretazione la prescrizione di un farmaco o un depliant informativo significa evitare problemi facilmente intuibili e con i quali, prima o poi, siamo tutti costretti a confrontarci. Sappiamo, però, che spesso il medico utilizza termini tecnici e scientifici che ci lasciano pieni di dubbi, anche perché non osiamo chiedere spiegazioni; persino indicazioni apparentemente semplici possono creare ansia ed  è necessario, quindi, rendere la comunicazione più chiara, semplice e comprensibile a tutti, verificando che lo sia realmente.

Redazione

CBlive

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