Cultura

A 30 anni dal dirottamento dell’Achille Lauro il campobassano Amedeo Caruso, all’epoca medico di bordo, ricorda quei momenti. “Un evento che ha cambiato la mia vita in meglio. Bisogna confrontarsi con la morte per imparare a vivere”

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Al centro un giovanissimo Amedeo Caruso con il comandante De Rosa

FABIANA ABBAZIA

Sono passarti trent’anni da quel 7 ottobre 1985, quando la nave da crociera italiana Achille Lauro, con oltre 400 passeggeri tra turisti ed equipaggio, venne sequestrata e dirottata da quattro terroristi palestinesi al largo delle coste egiziane. A perdere la vita per mano dei terroristi in quell’occasione fu il cittadino americano di origine ebraica Leon Klinghoffer. Oggi a ricordare quell’episodio che tenne il mondo con il fiato sospeso è il medico campobassano Amedeo Caruso, che all’epoca fresco di studi, sull’Achille Lauro viaggiava come secondo medico di bordo.
Oggi, dopo trent’anni, lo specialista ammette come quell’attentato abbia in qualche modo rappresentato la chiave di svolta della sua vita. Solo dopo quell’esperienza Caruso ha, infatti, capito la strada da seguire, decidendo di diventare psicoterapeuta. Una carriera che gli ha anche permesso di scrivere una serie di libri ed elaborare teorie psicoanalitiche, che proprio da quell’attentato hanno trovato ispirazione e fondamento.

Dottor Caruso cosa hanno rappresentato per lei quei momenti terribili vissuti trent’anni fa?
“Dopo tutto questo tempo posso affermare che quell’episodio ha per me rappresentato un vero e proprio cambio di rotta, che ha trasformato la mia vita in meglio”.

Cosa intende quando dice “in meglio”?
“Non solo perché all’epoca dell’Achille Lauro ero secondo medico di bordo e dopo poco tempo, mi sono imbarcato nuovamente sulla stessa nave per le rotte dell’Africa, dell’Australia e in diverse crociere nel Mare Mediterraneo con l’incarico di direttore sanitario, ma anche perché quell’attentato nel quale sono rimasto coinvolto mi ha consentito di leggere meglio dentro di me. Successivamente, infatti, sono diventato allievo di Aldo Carotenuto, grande psicoanalista italiano che mi ha insegnato tutta quella parte di medicina psicologica che la Facoltà mi aveva trasmesso solo in parte e troppo superficialmente. È stato a seguito dell’attentato che ho capito come l’aspetto dell’inconscio sia fondamentale per ogni medico che prima di poter aiutare i suoi pazienti deve necessariamente scoprire se stesso”.

Dopo quel sequestro lei ha scritto ‘La sindrome del Giudizio Universale’, in che modo questa teoria si ricollega a quanto ha vissuto quel 7 ottobre 1985?
“Si tratta di un’opera in cui ho riflettuto su quello che avevo visto e vissuto in quei momenti del sequestro. In quell’occasione eravamo tutti sul punto di morire. Dopo gli americani, gli ebrei e gli inglesi, che in quel momento davano più fastidio ai palestinesi, tutti pensavamo che saremmo morti. Ci trovavamo dinanzi a sequestratori disperati e pronti a tutto, persone con una missione da compiere. Erano anche molti giovani, basti pensare che uno di loro aveva addirittura 17 anni. E, proprio nel momento in cui tutti vedevamo la morte in faccia, ognuno ha messo a disposizione di se stesso quanto di meglio aveva. Tutti si sono adoperati per gli altri. I medici, gli infermieri, ma più in generale gli stessi passeggeri della nave hanno dimostrato una grande capacità di assistere chi stava male. Quello che è accaduto sull’Achille Lauro trent’anni fa si è concretizzato come un momento di grande coesione tra tutte le persone. In quell’occasione non solo ho avuto modo di notare la cosiddetta ‘Sindrome di Stoccolma’ che avevo avuto modo di studiare (ovvero quel particolare tipo di dipendenza psicologica per la quale ad un certo punto il soggetto il soggetto sequestrato abbraccia fortemente la tesi del sequestratore ndr), ma mi è stato possibile osservare come gli individui solo dinanzi alla morte, si riescano a sentire davvero vivi, facendo uscire fuori il meglio di sé. Ognuno di noi su quella nave sequestrata da un commando palestinese si è sentito molto più vivo di quanto si possa mia immaginare”.

Un po’ come dire che bisogna acquisire necessariamente la consapevolezza della morte per imparare a vivere?
“Esattamente. Bisogna morire convinti che questo viaggio sia il migliore. In quel momento, pensando che non ci sarebbe stata possibilità di salvezza, abbiamo dato fondo a tutte le ricchezze interiori che avevamo. Bisognava aiutarsi. Io sono stato privilegiato perché lavorando come medico ho avuto l’opportunità di non pensare a me stesso. La sindrome del giudizio universale è quella che non ci fa pensare a noi stessi quando abbiamo persone di cui occuparci e nello stesso tempo ci fa agire al meglio. In qualche modo è la stessa presente in un vecchio film di De Sica e Zavattini, intitolato proprio ‘Il giudizio universale’, dove tutti agiscono al meglio in attesa di un giudizio che viene però continuamente rimandato. Credo che l’ideale sarebbe vivere sempre a contatto con la morte, perché è l’unico metro di paragone. Quando nella vita di tutti i giorni ci accadono cose spiacevoli ma risolvibili siamo continuamente seccati, invece credo che dovremmo sempre far riferimento al grande balzo”.

Nei suo scritti ha speso parole bellissime per il Comandante De Rosa, che quel 7 ottobre 1985 si trovava al timone dell’Achille Lauro e che è venuto a mancare lo scorso anno. Che ricordi ha di lui?
“Lo ricordo come un vero eroe, anche se lui non amava essere definito così, soprattutto dagli amici. In realtà in moltissimi hanno parlato di lui come il vero salvatore della nave. Si era offerto al commando come agnello sacrificale. Con lui ho condiviso i momenti che fecero seguito alla morte di Leon Klinghoffer. Cercammo di stare vicino alla moglie della vittima. Sono ovviamente cose difficili da superare. Si trattava pur sempre di una donna alla quale era stato strappato il marito in un modo così tragico. Fu De Rosa a dirmi che ero la persona più adatta a quel ruolo e, forse, fu proprio lì che iniziarono le mie doti di psicoterapeuta”.

Se lei non avesse vissuto questa esperienza, cosa sarebbe stato diverso nella sua vita?
“Sicuramente avrei continuato a fare il medico e non lo psicoterapeuta. Però è pur vero che la psicoanalisi guarda al caso come una pura necessità. Quindi, credo che ritrovarmi su quella nave e affrontare quel cambio di rotta,sia stata per me una necessità che il mio inconscio mi richiedeva in quel preciso momento. È come se io fossi andato incontro a questa esperienza che invece di uccidermi mi ha cambiato”.

 

Redazione

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